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QUESITO N. 082: Se l'acquirente di un cespite acquistato mediante asta pubblica conseguente ad esecuzione immobiliare, risponde degli oneri gravanti sull'immobile
ura esecutiva.

RIFERIMENTI LEGISLATIVI E GIURISPRUDENZIALI

Nel nostro ordinamento (codice civile e codice di procedura civile) il nome moderno di “asta giudiziaria” non esiste. Le vendita all’asta si chiamano “vendite all’incanto”.
La vendita all’incanto (artt. 534-540, 576-591 c.p.c.) è una particolare modalità di attuazione della vendita nell’espropriazione forzata, consistente in una gara pubblica fra offerenti finalizzata alla scelta dell’aggiudicatario.
L’asta giudiziaria è presieduta dal Giudice dell’esecuzione, un giudice del Tribunale del distretto giudiziario in cui avviene l’asta che decide se gli immobili da mettere all’asta debbano essere divisi in lotti o in singoli appartamenti e loro pertinenze ed indica il prezzo base, il giorno e l’ora d’inizio d’asta, la pubblicità su quotidiani d’interesse nazionale o locale (indispensabile per il successo dell’operazione), l’ammontare della cauzione da versare ed, in caso di assegnazione, la data di consegna del bene immobile, la misura d’ogni scatto in crescendo dell’asta.
All’asta non può partecipare il debitore, mentre il potenziale acquirente si può far rappresentare anche da un legale specializzato nella materia o da un mandatario. Naturalmente a coloro che non si aggiudicano l’asta, verrà restituita la cauzione ed il deposito, ma senza interessi. Tra un’offerta e l’altra non devono trascorrere più di tre minuti. L’asta si conclude quando, trascorsi gli ultimi tre minuti, non si sono avute ulteriori offerte. Se l’aggiudicatario ci ripensa o non deposita la somma prevista per l’aggiudicazione, il Giudice ne dichiara la decadenza, confisca la cauzione versata, trasformandola in multa; addirittura se, nella ripartizione dell’asta, il prezzo finale che si riesce a raggiungere è inferiore a quello del precedente, anche con l’aggiunta della multa, il vecchio aggiudicatario è tenuto al pagamento della differenza.
La vendita forzata, nella quale rientra ogni tipo di vendita fallimentare mobiliare ed immobiliare, non può equipararsi alla vendita volontaria, attuando essa un trasferimento coattivo in virtù di un provvedimento giurisdizionale, rispetto al quale la domanda dell’aggiudicatario si pone soltanto come presupposto, ed alla stessa, pertanto, sono inapplicabili le regole giuridiche riguardanti non solo la garanzia per i vizi della cosa o mancanza di qualità, ma anche quelle sulla risoluzione del contratto per inadempimento, con particolare riferimento all’ipotesi di vendita di “aliud pro alio”; quando, tuttavia, la cosa oggetto della vendita risulta, successivamente al trasferimento, essere diversa da quella sulla quale è caduta l’offerta dell’aggiudicatario nonché da quella indicata negli atti del procedimento ed in particolare nell’atto finale di trasferimento, viene meno il nucleo essenziale e l’oggetto stesso della vendita forzata, quale risulta specificato e determinato dall’offerta dell’aggiudicatario e dalla stessa volontà dell’organo giurisdizionale, conseguendone la sostanziale nullità della vendita ed il diritto dell’aggiudicatario a ripetere quanto indebitamente versato (Cass. 3 dicembre 1983 n. 7233, Giust. Civ. Mass. 1983).
L’art. 105 della legge fallimentare recita testualmente: “Alle vendite di beni mobili o immobili del fallimento si applicano le disposizioni del codice di procedura civile relative al processo di esecuzione in quanto compatibili con le disposizioni delle sezioni seguenti”. In particolare con quest’ultima espressione il nostro legislatore ha inteso fare riferimento solo agli artt. 106 e 108 (L.F.). Va detto che la materia è disciplinata anche dal nostro codice di procedura civile, ma nel contrasto con gli artt. 106 e 108 (L.F.), prevalgono quest’ultimi.
È principio consolidato il fatto che non possa operarsi una trasposizione pura e semplice, nella procedura concorsuale, delle norme del c.p.c. relative alla procedura espropriativa individuale (C. 81/5069; 81/5784; 68/2209; 65/1179; 58/1193).
Spetta, invero, all’interprete stabilire quali di queste norme siano compatibili con le caratteristiche ed esigenze tipiche della procedura fallimentare (C. 83/5069).
La Giurisprudenza ha precisato che l’obbligo dei condomini di contribuire al pagamento delle spese condominiali sorge per effetto della delibera dell’assemblea che approva le spese e non a seguito della successiva ripartizione volta soltanto a rendere liquido un debito presistente secondo una mera attribuzione matematica.
Rientra tra le attribuzioni dell’amministratore di condominio di edificio, la riscossione dei contributi dovuti dai condomini in base allo stato di ripartizione valendosi, quando il preventivo sia stato approvato dall’assemblea, anche del provvedimento giudiziario, compreso quello ingiuntivo, altresì nei confronti di chi, subentrato ad altro condomino, è tenuto al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso ed all’anno precedente. Questo principio non è altro che la conseguenza dell’art. 63 disp. att. c.c. Senonchè come sempre avviene, nella pratica la fattispecie possono essere molteplici. Quid juris se le spese vengono deliberate ed i lavori iniziati prima della vendita? E se le deliberazione avviene prima della vendita? Ed infine quid iuris se l’acquisto viene effettuato da una vendita forzata o da un fallimento?
Prima di dare una soluzione ai quesiti pratici giova togliere ogni dubbio sul significato da attribuirsi alla dizione “contributi relativi all’anno in corso ed a quello precedente” dettato dal citato art. 63 disp. att. c.c.
La risposta è agevole: devono naturalmente escludersi i contributi erogati per periodi precedenti e diversi anche se approvati nello stato di ripartizione relativo “all’anno in corso e quello precedente”.
L’obbligo dei condomini di contribuire al pagamento delle spese condominiali sorge per effetto della delibera dell’assemblea che approva le spese stesse e non a seguito della successiva delibera di ripartizione volta soltanto a rendere liquido un debito preesistente e che può anche mancare ove esistano tabelle millesimali, per cui l’individuazione delle somme concretamente dovute dai singoli condomini è il frutto di una semplice operazione matematica.
Pertanto, nel caso di alienazione di un appartamento, obbligato al pagamento dei tributi è il proprietario nel momento in cui la spesa viene deliberata (Cass. 26.10.1996 n. 9366).
La soluzione potrebbe suscitare perplessità in considerazione del fatto che la volontà assembleare si è formata con il contributo dell’alienante in un momento in cui era consapevole, per l’esistenza di un preliminare, del prossimo passaggio di proprietà è l’alienante l’unico legittimato a partecipare alle assemblee condominiali (senza che l’acquirente possa in alcun modo dolersene, salvo diverse indicazioni nel regolamento di condominio: Cass. 14.3.1987 n. 2658).
Va inoltre tenuto conto dell’art. 63, comma 2, att. C.c., che per le spese condominiali comunque non pagate configura una responsabilità solidale del compratore e dell’acquirente (non spiegabile qualora si dovesse seguire la regola che fa riferimento al tempo in cui è sorta l’obbligazione) (Pret. Bologna 12.3.1994).
La norma ha lo scopo di far sì che l’acquirente di un’unità immobiliare in condominio abbia cura nel fare l’acquisto di accertarsi che il venditore abbia regolarmente pagato i contributi a suo carico, presumendosi altrimenti che nel prezzo di acquisto si sia tenuto conto dei contributi ancora da pagare.
In conclusione dunque, i principi in materia di oneri reali, la consapevolezza dell’acquirente, prima dell’acquisto, sulla sussistenza delle pendenze condominiali, il fatto che il beneficio rappresentato dalle spese, viene esclusivamente fruito dalla parte acquirente, sono tutti elementi che inducono a far carico della quota di oneri condominiali nel senso sopra riportato.
Ancora è stato affermato (Cass. 17.5.1997 n. 4393) che l’obbligo del condominio di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’ed...

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